La Roma imperiale: usi ed abusi del vino nella poetica da Petronio a Marziale : seconda parte
L’utilizzo del vino raggiunge nella Roma imperiale la sua punta massima e la sua massima diffusione, anche nei ceti subalterni e tra gli schiavi. È, però, soprattutto tra i ceti più abbienti, quasi gli unici ad avere testimonianza nelle fonti, che si passa dall’uso all’abuso.
Tra gli aneddoti riferiti da Svetonio, tra I e II sec. d.C., sul malcostume degli imperatori ce n’è uno piuttosto divertente, secondo il quale l’eccessiva passione di Tiberio per il vino aveva fatto sì che i suoi tria nomina fossero stati trasformati dai suoi soldati da <> in <>, cioè: Ubriaco che beve vino caldo e vino puro.
E Plinio il Vecchio dà notizia delle usuali pratiche escogitate per bere sempre di più: anzitutto filtrare il vino per diminuirne la gradazione alcolica, poi inventarsi nuovi metodi per provocare la sete, come assumere dei venena, veleni (cicuta, polvere di pietra pomice), in misura non letale – la paura della morte inciterebbe a bere -, fare saune da cui si esce quasi esanimi, provocare ripetutamente il vomito, rotolarsi nel fango, gonfiare il petto, rovesciare la testa all’indietro.
Il quadro più vivido di una cena di età imperiale, al tempo stesso fedele all’etichetta e decisamente sopra le righe, è quello che emerge dal Satyricon di Petronio. Si tratta di una cena caricaturale di liberti arricchiti ma è permeata da un vivido realismo che offre importanti indizi per ricostruire il quadro conviviale di quell’epoca. Il vino è presente fin da subito: prima di cena Trimalchione, come era abitudine tra i suoi contemporanei, si trova nel suo balneum, stanza da bagno, e il Falerno, il più prestigioso dei vini italici, non è che l’aperitivo. Per tutta la cena il vino scorre a fiumi, a partire dalla gustatio quando è servito, come di norma, del mulsum, ed è impiegato anche in usi non consueti – stravaganti ostentazioni di ricchezza – come quello di sciacquare le mani dei commensali.
Al termine della gustatio entrano in scena anfore recanti l’etichetta: <> (un vino che si affermò all’epoca di Caio Gracco, sotto il consolato di L. Opimio [121 a.C.]: un’altra esagerazione tanto ricercata quanto inverosimile) e con esse la pregnante filosofia di Trimalchione: <> / <>. Per rendere ancora più chiare le sue parole, l’esuberante anfitrione estrae uno scheletrino conviviale, un usus tipico dell’età imperiale, che assume il significato di un tangibile esorcismo contro la paura della morte, insieme al cibo – mangiare significa essere vivi – e soprattutto al vino, simbolo della vita stessa.
Dalla cena Trimalchionis si ricava un’altra abitudine conviviale: in una sorta di anticipazione del dessert (secundae mensae) vengono serviti focacce e frutti coperti di zafferano, ingrediente tipico delle cerimonie cultuali, cosicché i commensali si alzano in piedi brindando alla salute dell’imperatore; tale uso, introdotto già dall’epoca di Augusto, prevedeva che in tutti i banchetti, sia privati che pubblici, di regola durante le secundae mensae, si brindasse alla salute dell’imperatore (veneratio), senza dimenticare l’esercito . Poi, smaltita la sbornia nel balneum, i convitati di Trimalchione si spostano in un’altra sala per la comissatio finale, com’era consuetudine nelle case dei più ricchi.
Altra preziosa fonte per gli usi – e gli abusi – conviviali di epoca imperiale sono gli epigrammi di Marziale (seconda metà I sec. d.C.), che ci offrono un quadro ricco in particolare della comissatio, la parte più ‘greca’ e disinibita della cena, in cui Bacco infuria e ci si cosparge di profumi, ci si corona di fiori, in una folla di musicisti, cantanti, danzatrici, saltimbanchi, buffoni, mimi, fino a notte inoltrata.
Il poeta ci dà anche informazioni più tecniche sulle abitudini conviviali, come quella, diffusa tra i ceti superiori, di filtrare il vino con il colum nivarium, un vaso di bronzo fornito di fori che veniva riempito di neve, sulla quale si versava il vino; mentre tra gli humiliores, cioè coloro che avevano mezzi sufficienti per non essere considerati umbrae – parassiti che partecipavano ai margini della cenae -, si usava, allo stesso scopo, il più rudimentale saccus nivarius, sacchetto di tela.
Il dato inconfutabile che emerge è la costante presenza del vino: anche chi vive nell’essenzialità dispone di una mensa vinaria, pure all’interno di un triste domicenium, di una modesta cena a casa propria, l’ospite non può essere privato del vino e perfino l’avaro non rinuncia alla bevanda, seppure della qualità più scadente.
Le fonti epigrafiche confermano e integrano le testimonianze letterarie. L’iscrizione di Isernia – datata tra il I e il II sec. d.C. – è una delle migliori attestazioni del consumo medio di vino e del suo prezzo in relazione alle altre necessità vitali dell’uomo romano comune del periodo imperiale. Il vino, infatti, nella quantità di mezzo litro compare in un elenco di beni di prima necessità (che comprende pane, companatico, compagnia femminile e fieno per il mulo) contrattati da un caupo, oste, e un viandante. Mentre delle altre merci è indicato il prezzo, quello del mezzo litro di vino non compare, lasciando presupporre che, in quanto parte essenziale di un pasto, insieme al pane, fosse fisso e conosciuto da tutti: un asse circa.
Altre due epigrafi forniscono i dati relativi agli acquisti alimentari di famiglie pompeiane: il vino compare sempre (accanto al pane, al companatico, all’olio, al formaggio) a prezzo basso: tra un asse e tre assi. Questi dati confermano la diffusione, per il I sec. d.C., del vino come alimentum di massa.