Il Vino è musica
Il vino, per me, è come la musica: non basta parlarne si deve assaggiarlo. Forse, però, non basta neanche questo: per conoscerlo davvero, per entrare in empatia con lui e lasciarsi emozionare, si deve conoscere anche chi lo crea, la cultura che lo ha prodotto, il lavoro che lo ha reso possibile portandolo fino a noi dalla notte dei tempi.
Fin dall’infanzia trascorro le vacanze nel feltrino tanto da considerarmi, io milanese DOC, bellunese d’adozione. Il feltrino, terra di emigrazione, terra di miseria, ove tutto è costato fatiche, lacrime e dolore non è certo considerata terra di vini, al massimo terra di chi, i vini, li beve e forse anche troppo. Eh già, i veneti, le ombre, gli alpini: tre nomi indissolubilmente legati tra loro: il passo tra le ombre e il clinto è breve. Vino povero e burbero il clinto, che sembra essere il naturale contraltare enologico delle genti montagna, frutto di un’altra grande disgrazia che colpì in passato queste terre: la fillossera.
Poco fa scrivevo che per capire il vino si deve conoscere chi lo produce e quindi, armato di buona volontà e di quelle che ritenevo essere solide basi sulla storia locale, mi presento ad un piccolo produttore locale, Marco de Bacco, che sapevo produrre vino subito a ovest di Feltre. Marco inizia a raccontarmi la storia della sua Azienda e della viticoltura locale e, immediatamente, capisco che sarà un lungo racconto, un racconto che nasce da antichi vitigni autoctoni dai nomi a me ignoti: pavana, gata, bianchetta gentile, paialonga. A Fonzaso e dintorni, racconta Marco, el vin sel fa da sempre, da prima del clinto, sel coltivea co le asère (allevamento a palo secco senza fili di banchina, NdA). Il momento d’oro della viticolture feltrina, continua a raccontare, fu quando, arrivato l’oidio nel resto d’Italia intorno agli 50 del XIX secolo, noi rimanemmo indenni fino al 1880 circa. Il racconto si sposta ora sulle persone. Un tal Paialonga, ad esempio, ritornato dopo una vita di emigrazione, porta con sé delle barbatelle dando così i via alla coltivazione dell’uva che tutt’ora porta il suo nome; solo la genetica permetterà di capire che in realtà si trattava di franconia.
E poi cos’è successo? – fu la mia domanda seguente – E poi arrivarono le malattie – risponde Marco – prima oidio e peronospora e poi il colpo di grazia: la fillossera. Le vigne morirono e furono sostituite con le direte (gli ibridi da viti americane): clinto e bacò, soprattutto. Non morirono però solo le vigne: morirono le tradizioni, l’economia rurale di un’intera zona ma, soprattutto, morì la memoria di ciò che era stato. I terrazzamenti furono abbandonati, il bosco iniziò a riconquistare ciò che era stato ottenuto col lavoro di generazioni. L’emigrazione ebbe un nuovo impulso che portò ad un ulteriore abbandono delle campagne fino ad arrivare ai nostri giorni e a me che, nonostante 46 anni di vacanze nel feltrino, non conoscevo la pavana o la bianchetta. E adesso, chiedo timidamente a Marco? adesso provo a ripartire da dove avevamo smesso: dagli autoctoni. La bianchetta gentile o fonzasina ha delle ottime potenzialità come base spumante mentre pavana e gata (la trevigiana nera) potranno dare vini di corpo e struttura. Certo non sarà facile – continua Marco – questi vitigni sono cresciuti qui tra le crode: sono difficili da domare soprattutto per adeguarli ai gusti del mercato. La tecnologia aiuta ma è il cuore, la conoscenza del territorio e la passione che, spero, mi permetteranno di riuscire nel mio intento.
Non basta parlare o ascoltare – dicevo – bisogna vedere, toccare con mano. Marco mi accompagna quindi in una sua vigna. Coltivate a palo secco, fissate alle asèle con le sache, i rametti di salice, i tralci di bianchetta, pavana e gata nascono sui terrazzi praticamente tra i sassi. Mi no ho bisogn de far diserbi, l’erba no la cres: no ghe ne tera, solche sas. È vero: la matrice rocciosa emerge direttamente da quel poco suolo formatosi nei secoli e trattenuto dai muretti a secco; le viti, talvolta ancora a piè franco, nascono dai sassi, vivono con poco e ci danno tanto.
Io mi evolvo all’indietro, scriveva l’indimenticato Teobaldo Cappellano riferendosi alle sue scelte radicali in vigna e cantina: questo credo sia lo spirito del vino, progredire, guardare avanti con un occhio e un pensiero sempre rivolto alle radici, nostre e della vite.