• Dom 16 Feb 2025

I padri nobili della vite domestica: le origini di alcuni dei più importanti vitigni del mondo

La genetica dei vitigni è indissolubilmente legata alle loro origini, alla loro storia e alla loro diffusione.

Introduzione

La storia della vite domestica e della viticoltura rappresentano un argomento ampio e complesso che inizia con la domesticazione della vite per svilupparsi per mezzo dell’analisi dei suoi differenti metodi di allevamento oltre che, ovviamente, con l’approfondimento della storia e delle parentele dei differenti vitigni.

Comprendere, per mezzo delle analisi genetiche, i legami di parentela fra le diverse varietà di Vitis vinifera vinifera – la vite domestica – non è solo un modo per soddisfare la curiosità di pochi addetti ai lavori ma è – al contrario – uno strumento essenziale per ricostruire la storia delle origini dei vitigni attualmente esistenti approfondendo la loro diffusione e le vie commerciali che ne hanno permesso il movimento prima nel Vecchio e poi anche nel Nuovo Continente divenendo così una chiave di lettura essenziale per interpretare la storia dell’Umanità, dei commerci, degli usi e dei gusti che hanno portato, nel bene o nel male, a essere il Mondo ciò che noi oggi conosciamo.

Inoltre, a mio avviso, la comprensione dell’enorme varietà del germoplasma vitivinicolo ci dovrebbe far ragionare sull’importanza della diversità genetica nell’ottica del migliore adattamento ai differenti territori e, soprattutto in questi ultimi decenni, ai drammatici cambiamenti climatici. La selezione clonale, almeno così come sviluppata e diffusa da ormai molti anni, ha drasticamente ridotto la diversità genetica complessiva di V. v. vinifera riducendone pesantemente, in tal modo, le capacità di adattamento e di reazione spontanea alle avversità ambientali alle quali potrà essere soggetta negli anni a venire.

Nelle prossime pagine si cercherà di riassumere, per sommi capi, la genetica, la storia e le caratteristiche di alcuni dei vitigni che maggiormente hanno contribuito a creare e caratterizzare l’attuale patrimonio ampelografico europeo e mondiale.

Grappolo di sangiovese

Il gouais blanc: un protagonista della vite in Europa

Il gouais blanc – o heunisch weiss – rappresenta letteralmente, insieme al ben più famoso pinot noir, un tassello fondamentale della storia della viticoltura europea. Vitigno di origine sconosciuta, anche se quasi certamente originatosi tra la Francia centrosettentrionale e la Germania sudoccidentale, fu estremamente diffuso in tutta Europa nel corso del Medio Evo. Le prime menzioni scritte di questo vitigno risalgono agli anni 1539-40; in quel periodo in Germania e in Francia i vitigni erano “divisi” in un gruppo più nobile, contenente savagnin e pinot noir, e un secondo di vitigni di minor pregio tra i quali il gouais blanc e l’elbling.

Nonostante questa apparente scarsa “nobiltà”, questa varietà sembra aver dato direttamente origine ad almeno 81 diversi vitigni tra i quali non si può non citare chardonnay e gamay noir – nati dall’incrocio con il pinot noir – oltre a riesling e furmint, originatisi dall’incrocio del gouais blanc con varietà ad oggi non identificate.

L’ampia diffusione di questo vitigno e la sua lunga storia hanno fatto sì che attualmente siano noti almeno 226 sinonimi per identificarlo. Oggi, in tutto il suo areale la sua presenza è assolutamente marginale tanto che, ad esempio, in Francia, è noto per un singolo vigneto in Alta Savoia; è ancora coltivato, pur se sempre estremamente raro, in Germania, Svizzera e Italia.

Nel nostro Paese la sua presenza è limitata alla porzione nord-occidentale, principalmente in Piemonte, dov’è noto con i nomi di preveiral nel pinerolese, di blancio in Val Maira (CN), di charjou nelle valli del saluzzese e di liseiret in alta Val Bormida; è anche presente nei colli piacenti dov’è chiamato lisöra. In pochissimi casi è vinificato in purezza e dà origine a vini dall’elevata acidità con sentori di mela verde e fiori di pero.

Grappoli di gouais blanc - foto di Cascina Melognis (CN)

Il pinot: le antiche radici della nobiltà

Fiumi di inchiostro sono stati versati sulla nobiltà di questo gruppo di vitigni e sulla grandezza di molti dei vini da essi ottenuti.

Il pinot, però, vanta anche altre caratteristiche uniche quali, ad esempio, l’esistere molto probabilmente da circa 2.000 anni come suggerito, tra l’altro, dall’elevatissima diversità clonale – attualmente sono registrati oltre mille cloni di pinot – e le numerose, oltre che importantissime, varietà di colore delle bacche: non si possono infatti non citare pinot noir, p. gris, p. blanc oltre che, ancora come bacca nera, il p. meunier. Il trattare i diversi pinot come una singola famiglia – se non addirittura come un singolo vitigno – trova la sua giustificazione nella grande uniformità genetica tra le varie forme di colore.

Le origini di questo vitigno sono ancora ben lontane dall’essere chiarite. L’ipotesi che si tratti di una forma addomesticata di Vitis vinifera sylvestris presente nel nord della Francia non ha trovato conferma nelle analisi biomolecolari anche se vi sono con tali viti selvatiche evidenti similarità morfologiche e se la prima citazione di questo vitigno – nel corso del XIII secolo con il nome morillon – è legata a questa porzione di Francia.

Ciò che, al contrario, è ormai certo è il ruolo centrale ricoperto da questa varietà nella formazione del germoplasma viticolo europeo. È importante ricordare che solo dagli incroci spontanei con il gouais blanc si sono originate almeno 21 varietà tra le quali aligoté, chardonnay, auxerrois e gamay noir. Inoltre, il pinot è risultato essere “nonno” di teroldego, marzemino, lagrein e dureza oltre a essere un ascendente anche del syrah. Certo di non secondaria importanza è anche il fatto che il pinot sia uno dei genitori, o dei figli, del savagnin, che ricordo essere sinonimo delle varie espressioni del traminer. L’ipotesi, per altro assai probabile, che il pinot sia uno dei genitori del savagnin avrebbe come conseguenza il fatto che il nostro vitigno sarebbe anche nonno di chenin blanc e sauvignon blanc nonché bisnonno del cabernet sauvignon.

Grappoli di pinot noir

Il savagnin: antiche storie e inaspettate parentele

I 107 sinonimi noti di questo vitigno già prefigurano un quadro ampelografico assai complesso. Il savagnin è un vitigno noto già dal Medioevo e, attualmente, diffuso in Italia e in gran parte della Mitteleuropa anche se la prima menzione del suo nome nella forma attuale risale al 1732. Le sue origini sono da cercare tra la Francia nord-orientale e la Germania sud-occidentale, ovvero nella stessa area in cui si ritiene sia nato il gouais blanc; attualmente, il nome savagnin è utilizzato nella zona francese dello Jura. Un aspetto fondamentale da evidenziare è che questo vitigno mostra un’enorme varietà clonale che dà vita a un gran numero di biotipi che comprendono sia forme neutre sia forme marcatamente aromatiche. Tra queste ultime non si può non menzionare il gewürztraminer – o traminer aromatico – le cui origini devono essere cercate il Germania dato che non vi sono prove della sua esistenza in Alto Adige almeno fino al XIX secolo. La similarità genetica di queste forme è talmente elevata da portare i ricercatori a escludere l’opportunità di parlare di “ famiglia del savagnin” e quindi a suggerire di trattare tutte queste uve come un singolo vitigno.

Nei secoli a seguito di incroci spontanei, questo vitigno ha dato origine a un gran numero di varietà tra le quali voglio ricordare il petit meslier, il sauvignon blanc – e di conseguenza il cabernet sauvignon, figlio di cabernet franc e sauvignon blanc – e lo chenin blanc; inoltre, si è rivelato avere parentele di primo grado con petit manseng, silvaner e grüner veltliner.

Poco note sono, invece, le origini del savagnin: l’ipotesi di una sua diretta derivazione da forme selvatiche non ha trovato riscontri genetici; attualmente, i dati disponibili sembrano indicare una sua origine da un incrocio spontaneo tra pinot e una varietà tutt’ora sconosciuta.

Grappoli di savagnin

Il nebbiolo e le sue origini ai piedi delle Alpi

Ian D’Agata – nel suo volume “Native wine grapes of Italy” – scrive: “Il nebbiolo è il più grande vitigno autoctono d’Italia e, per molti esperti, una delle cinque o sei più grandi varietà del mondo”.

A prescindere dalle classifiche è fuori di dubbio che questo vitigno dia vita a vini che figurano a pieno titolo nel gotha dell’enologia mondiale.

La sua prima menzione scritta va fatta risalire al 1266 (non 1268 come spesso riportato) per la zona di Rivoli (TO) in un documento oggi conservato nell’Archivio di Stato di Torino; già nel 1292, però, viene citato per Alba, iniziando così “ufficialmente” il suo prestigioso percorso nelle Langhe. È importante evidenziare che tra il XIV e il XVI secolo questo vitigno viene citato – in forma scritta e con i nomi tutt’ora in uso – in gran parte delle zone della sua attuale coltivazione, ovvero Valtellina (chiavennasca), alto Piemonte (spanna), Val d’Ossola (prünent) e Valle d’Aosta (picoutener o picotendro).

Attualmente, quattro sono i principali biotipi di questa varietà: làmpia, michet (una forma di làmpia affetta da una virosi stabile), rosé (in realtà un vitigno a sé stante denominato nebbiolo rosé o chiavennaschino in Valtellina) e bolla, una volta ampiamente utilizzato ma ora praticamente abbandonato.

Le origini geografiche e genetiche di questo vitigno sono tutt’ora ignote anche se l’area pedemontana delle Alpi occidentali piemontesi o, in seconda battuta, la Valtellina sembrano essere le aree più probabili. I genitori del nebbiolo sono ad oggi sconosciuti e probabilmente estinti mentre almeno otto sono i suoi discendenti diretti, ovvero bubbierasco (in zona Saluzzo – CN) dall’incrocio spontaneo con la bianchetta di Saluzzo e altre sette dall’incrocio con varietà ad oggi sconosciute: freisa, neretto di Bairo, vespolina, nebbiolo rosé, negrera, rossola nera e brugnola, queste ultime tre in Valtellina. Interessante segnalare che i rapporti di parentela fra freisa e viognier rendono il nebbiolo un possibile cugino del nobile bianco francese.

Grappoli di nebbiolo

Il sangiovese, ovvero il fulcro del patrimonio vitivinicolo italiano

Il sangiovese rappresenta – sia nei fatti sia nell’immaginario collettivo – una pietra portante della vitivinicoltura italiana.

La storia di questo vitigno è antica e complessa: ecco come è narrata nell’Ampélographie (1901-1910) di Viala e Vermorel: “Non è semplice dare per certa l’origine del sangioveto o sangiovese, perché le citazioni più vecchie non sono al riguardo cosi precise. L’autore che ne parla per primo è il Soderini, nel suo Trattato della coltivazione delle viti (1600), dove si accenna al sangiogheto come a una varietà capace di dare sempre un vino di qualità”.

Attualmente, la teoria più accreditata sull’origine di questo vitigno lo ritiene derivante da un incrocio spontaneo tra ciliegiolo e calabrese di Montenuovo. Quest’ultimo vitigno, da non confondersi con il calabrese o nero d’Avola, è stato riscoperto non molto tempo fa nei pressi del Lago di Averno, nei Campi Flegrei, in alcuni vigneti impiantati a metà del XIX secolo da una famiglia di provenienza calabrese.

Inoltre, ulteriori indagini hanno mostrato che il corinto nero – varietà coltivata principalmente sull’Isola di Lipari – altro non è che una mutazione priva di vinaccioli del sangiovese stesso; sempre in Calabria, il sangiovese è noto localmente con i nomi di nerello, nerello camporu, tuccanesi e altri a dimostrazione della sua lunga storia sul territorio regionale. Inoltre, è importante sottolineare le numerose strette parentele che questa varietà mostra con numerose altre sia in Toscana sia in Calabria quali il foglia tonda, il morellino di Casentino, il morellino del Valdarno, il frappato, il perricone, il nerello mascalese e il gaglioppo.

Per completezza, segnalo che nel 2012 è stata ipotizzata l’origine del sangiovese dall’incrocio di ciliegiolo e negrodolce, un’antica e quasi sconosciuta varietà pugliese.

Grappoli di sangiovese

La garganega: dal Veneto all’Italia e non solo

La garganega è generalmente associata ad alcuni grandi vini bianchi veneti tra i quali spiccano quelli delle aree di Soave e Gambellara.

Questo vitigno, però, ha una storia antica che inizia – almeno in forma scritta – con il lavoro del primo ampelografo italiano – Pietro de’ Crescenzi – che nel corso del XIII secolo ne scrive nel “Liber ruralium commodorum” con il nome di garganica; è, però, certo che tracce di questo nome e del vitigno siano note almeno dall’anno 1000. Le affinità genetiche di questa varietà con vitigni quali corvina veronese, oseleta, rondinella e dindarella ne collocano le origini nell’area veronese escludendo l’inflazionata ipotesi di una sua origine greca. È importante segnalare che la garganega è presente in Sicilia come grecanico dorato e in Spagna come malvasia de Manresa; sono, invece, da rigettare le sinonimie con la dorona di Venezia, la ribolla gialla e la vitovska. L’importanza della garganega nell’ambito del patrimonio ampelografico italiano emerge chiaramente dalle numerose varietà da essa generate a partire dal pugliese susumaniello originatosi da un incrocio con l’uva sacra (o sogra), una varietà a bacca nera a duplice attitudine. Inoltre, questa varietà è risultata avere una rapporto di parentela di primo grado – e quindi ragionevolmente essere uno dei due genitori – con albana, catarratto bianco, dorona di Venezia, malvasia bianca di Candia, marzemina bianca, montonico bianco e trebbiano toscano ai quali andrebbero aggiunti i più che numerosi discenti da queste varietà ora elencate.

Nel calice, i vini a base garganega – dei quali va ricordata la più che buona attitudine all’invecchiamento – regalano quadri olfattivi con note di frutta bianca gialla e tropicale, fiori di biancospino e gelsomino, erbe aromatiche, talvolta note di mela cotogna e anice stellato oltre a una generalmente ben presente mineralità; al palato, si offrono freschi, tesi, di più che buona struttura e con una chiusa gradevolmente ammandorlata.

Grappoli di garganega

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