• Mar 05 Dic 2023

La Brinca. Parole, storia e gusto del Levante ligure

<<Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone>>

(Natalia Ginzburg, “Lessico famigliare”, 1963).

A leggere il nome dapprima, poi la storia e, infine, il menu della Trattoria La Brinca, a Ne – in Valgraveglia, entroterra del Levante ligure – ci si accorge di come, attraverso le parole che segnano i luoghi, le persone e i cibi che ivi si trovano, si possa ricostruire, passo dopo passo, un mondo a parte, fatto di tradizioni, affetti, ricordi e sapori, che oggi si racconta nei piatti, nelle materie prime e nelle preparazioni, che si possono gustare in questa trattoria, paladina della storia della Valgraveglia e della gastronomia dell’entroterra del Levante ligure.

La signora Teresina, o Texinin, dei Brinche, soprannominata la Brinca, è colei che, nel secolo XIX, dona il nome alla casa colonica, dove oggi sorge l’omonima trattoria, condotta dal 1987 dalla Famiglia Circella, che la trasformano in trattoria e caneva con fundego da vin, cioè in un’osteria con bottega e cantina, come si usava dire all’epoca in cui essa prese il nome.

Se la radice etimologica di Brinca si riconduce al ligure brincu, briccu, ossia luogo scosceso, impervio, ripido e duro, come d’altra parte sono le terre intorno al locale, il linguaggio antico di questi luoghi è assai presente nella  carta de La Brinca, dove i piatti mantengono il loro nome originale, dialettale, attraverso cui si raccontano la storia e la cultura del luogo e delle sue genti.

L’antipasto di campagna è l’emblema della tradizione locale. Vi troviamo svariati assaggi di antiche preparazioni.

Ricordiamo la Baciocca, una torta salata la cui origine è contesa tra Val di Taro e Valle Stura, a base di cipolle e delle locali patate quarantine; la Panella, un castagnaccio salato aromatizzato al finocchietto selvatico; il Raviolo Fritto, ripieno di un seicentesco Pestun genovese, fatto con erbette, ricotta, uvetta e pinoli; i Ravioli alla Brace, che i bambini della Famiglia Circella rubavano alla nonna Maria, per farli cuocere sul piano della stufa di ghisa; il Prebuggiun – che significa rimescolamento a caldo di prodotti diversi e serviti, a loro volta, caldi – di Ne, fatto con il cavolo, che si differenzia quindi da quello classico ligure, preparato, invece, con le erbette selvatiche, usualmente impiegate per il ripieno dei ravioli.

Sempre all’antipasto, troviamo poi il piatto simbolo della Valgraveglia, ossia le Frisciulle o Testaieu, conditi – a nostro avviso deliziosamente – con olio e formaggio oppure con il – sempre a nostro parere superbo – pesto che si prepara a La Brinca. I Testaieu sono cotti nei testetti di terracotta fatti nella frazione Isciola e, si afferma a La Brinca, sono il cibo di valle più arcaico che ci sia. Curiosa ulteriore notazione linguistica: se in bassa Valgraveglia, fino a Caminata, essi prendono il nome di Frisciulle, da Frisolino in su il nome cambia in Testaieu.

Tante sono le parole e tanta la storia che ci racconta La Brinca, anche nei suoi primi.

Molta la farina di castagne, che affianca quella di grano Tosella – farina locale di un grano tenero quasi estinto – e la farina di granoturco montano negli impasti a mano della Trattoria.

Il classico piatto della festa sono i ravioli di erbette “cu tuccu“. Si tratta di un sugo di carne aromatico genovese, che prende il nome dal fatto che esso “tocca e basta” la pasta, una sorta di rapido passaggio, tipico di un’epoca fatta di ristrettezze e miseria, dove la carne non era alla portata di tutti e le quantità disponibili erano risicate.

S’impiega invece la ricotta locale, chiamata Sarazzu, per preparare altri ravioli, che saranno serviti con un sugo a base di nocciole del posto, oblunghe, bruttine e difficili da pulire, tuttavia di grande intensità aromatica, provenienti dai noccioleti della Val Fontanabuona, di Mezzanego e delle Rivaie, collina appena sotto Campo di Ne quasi estinti a causa dell’afflusso di nocciole dall’estero.

Le Picagge – ossia fettucce, o meglio ancora fettucce della forma di quelle per legare i grembiuli delle massaie – se fatte con farina di castagne sono condite col pesto, fatto solo al mortaio, al quale si aggiunge la Prescinseua, tradizionale cagliata acida genovese, che ben contrasta il dolce della castagna.

Antiche e assai rare sono poi le Lattughe ripiene di carne, erbe aromatiche e aglio, servite in brodo di gallina e manzo. Vuole la tradizione che esse rappresentassero il piatto principe del giorno del Lunedì dell’Angelo, perché venivano preparate con gli avanzi del pranzo di Pasqua.

L’importante fenomeno della migrazione dalle terre del genovese verso il Sudamerica è la chiave di lettura della Punta di Vitello alle bacche di ginepro, la cui cottura alla brace è stata portata in patria da alcuni emigranti originari della vicina Conscenti, che in Argentina appresero le tecniche di preparazione proprie dell’asado. A La Brinca, la cottura avviene nel forno a legna, strenuamente preservato nonostante le importanti innovazioni tecnologiche apportate nelle cucine del locale, con il tocco caratteristico del ginepro e dell’affumicato.

Sempre ai secondi, attenzione ai cibi di magro con l’ottimo Budino d’erbe e ricotta dell’Aveto, le Verdure ripiene alla genovese e, in inverno, il Sancrau, variante dei crauti tedeschi, da cui deriva anche il nome (dal tedesco sauerkraut), giunto in Valgraveglia nel secolo XVIII, quando nella valle transitavano le truppe austriache dirette verso il Ducato di Parma, durante l’occupazione di Genova.

Il Coniglio ripieno alle erbe, la Cima di faraona anch’essa ripiena alle erbe, il Coniglio alle olive e il Fritto misto alla genovese sono poi pietanze che non possono certo mancare in una trattoria, che fa della tradizione e della storia della cucina locale il proprio assoluto fiore all’occhiello.

Abbiamo, peraltro, avuto occasione di provare un’originale interpretazione del celebre cappon magro ligure rivierasco, in chiave campagnola: il Cùniggiu Magru, dove al posto del pesce abbiamo trovato il coniglio in porchetta, insieme alle tante verdure che connotano la vera gastronomia ligure.

Cuore della dolcezza a La Brinca è la ricetta dello sciroppo alle rose che la sig.ra Maria, nonna degli attuali titolari, ha lasciato in eredità alla Famiglia Circella prevede l’impiego di rose di antiche varietà locali e lo troviamo a guarnire lo splendido Biancomangiare. Il biancomangiare è una morbida e vellutata crema fatta con il latte dell’Appennino ligure. Essa è abbinata non solo allo sciroppo di rose, ma anche alla deliziosa salsa all’uva fragola e ad una salsa all’arancia. Alla Trattoria La Brinca è stata recuperata la Panèra, un semifreddo al caffè inventato nel secolo XIX alla Gelateria Balilla di Genova e si usa la ricotta dell’Aveto per proporre una torta soffice fatta anche con miele, uvetta e pinoli.

La pasticceria, regno di Pierangela Circella, è anche innovazione. Fin dal 1987, viene, infatti, servito il Brinchetto, semifreddo di caffè, nocciole e creme, che conclude un pasto pieno di gusto, storia ed amore per queste terre. Abbiamo posto alcune domande a Sergio Circella, patron de La Brinca.

Citando i suoi scritti leggiamo queste parole: “Orgogliosamente trattoria“. Ci racconta com’è nata l’idea de La Brinca e quale il pensiero che vi ha portato ad intraprendere quest’avventura?

“L’idea nasce a metà degli anni ‘80: la famiglia Circella composta da papà Carlo, mamma Franca e i figli Roberto, Andrea e il sottoscritto Sergio (appena finite le superiori) è a un bivio.

Le attività familiari di frantoio di olive in inverno e di commercio ortofrutticolo in estate sono in un periodo difficile. L’agricoltura locale è in decadenza e il futuro non è assolutamente roseo. Per questi motivi, si decide di puntare sulle qualità di cuoca di mamma Franca, che fin da bambina seguiva la nonna e la madre quando erano chiamate nelle famiglie del paese ad organizzare i pranzi delle feste.

E poi nostro nonno paterno, nel piccolo centro di Campo di Ne, aveva una piccola osteria, che rimase aperta fino agli anni ‘70. Con molto coraggio e parecchia incoscienza, decidiamo di restaurare un’antica cascina di proprietà e trasformarla in trattoria.

Non avendo nessuna esperienza di servizio e di gestione, ci siamo affidati alla buona volontà e alla voglia di far conoscere la nostra bella Valle, puntando da subito alla cucina tradizionale familiare locale, senza cedimenti alle mode che furoreggiavano in quei momenti, e così continuiamo a fare. Orgogliosamente trattoria proprio perché nessuno di noi ha studiato di hotellerie, per cui le nostre regole interne in sala e in cucina sono assolutamente da autodidatti e derivate dall’esperienza che ci siamo fatti nel tempo”.

Un piatto simbolo della Valgraveglia sono i Testaieu o Frisciulle, cotti nei testetti di terracotta di Iscioli: quali gli ingredienti e la preparazione?

“E’ il piatto più antico che conosciamo: acqua e farina bianca con un pizzico di sale, quindi una pastella molto liquida che si versa con il mestolo dentro a questi testetti di terracotta, arroventati nella brace. La formella di pasta che si ottiene viene servita con olio locale e formaggio, oppure con il Pesto.

La particolarità sono questi piccoli piatti chiamati testetti che vengono fatti a mano nella piccola frazione di Iscioli, fatti di terra leggermente silicea e colorati con il ca-maa, il marciume del tronco dei vecchi castagni. Lontani parenti dei Testaroli della Lunigiana, differiscono sia nella preparazione, che nel servizio: di certo, si tratta per entrambi di un cibo antichissimo usato sicuramente dalle antiche tribù Liguri”.

Fundego da vin: quali sono i criteri di selezione enologica che seguite, in particolare con riferimento alle etichette locali?

“Il mio principio è sempre stato che “vince il bicchiere”, nel senso che ogni vino deve essere assaggiato e solo se ha determinati requisiti verrà acquistato. Ovviamente questo vale anche per i vini locali e Liguri in genere.

E’ sempre stato importantissimo per me valorizzare i vini (e i prodotti) locali: negli ultimi anni, la richiesta è notevolmente aumentata, e per fortuna la qualità degli stessi è parecchio migliorata grazie agli sforzi dei produttori, che hanno razionalizzato i vigneti e migliorato le tecniche di vinificazione.

Questo ha creato ovviamente una certa concorrenza con le etichette di altre regioni, quindi la mia ricerca di vini non Liguri è diventata ancora più selettiva. Da sempre, amo far conoscere vini assolutamente sconosciuti, anche di zone poco note, e per me l’etichetta blasonata ha davvero poco peso. Se però il vino lo merita, nel senso che il bicchiere di un’azienda conosciuta vale veramente, acquisto il vino ben volentieri”.

Come si coniugano le nuove tecniche di conservazione e cottura con la preparazione di ricette antiche?

“Sono fondamentali per migliorare il piatto tradizionale e garantendo un futuro allo stesso. I piatti che hanno allietato le tavole dei nostri avi probabilmente oggigiorno risulterebbero immangiabili per noi, vuoi per motivi di conservazione, vuoi per ingredienti che oggi non sarebbero gradevoli. Ad esempio, se dovessi fare il Pesto con l’olio che mio trisnonno produceva nel suo frantoio alla fine dell’800, farei un Pesto con un olio rancido che per i gusti di allora andava bene, ma che oggi risulterebbe nauseante.

Le tecniche di cottura e di conservazione attuali fanno assaggiare, alle nuove generazioni, piatti che sono nella nostra storia e che spero possano essere portate avanti dalle future generazioni, non in maniera industriale ma assolutamente artigianale, per avere un’alta qualità”.

Per concludere, quali sono secondo lei i rapporti tra cucina di territorio, cultura dell’ambiente e del paesaggio e turismo consapevole e sostenibile?

“Chi ama viaggiare cerca nel territorio che va a visitare le migliori peculiarità: il paesaggio, la storia, il cibo e un buon luogo dove riposare. E in Italia, spesso e volentieri, quando si organizza un viaggio, si cerca prima cosa c’è di buono da mangiare e quali sono i locali migliori in zona, poi il resto viene dopo.

Ecco il valore inestimabile dell’Italia che viene sempre poco considerato. E la cucina “tradizionale locale” è assolutamente quella più ricercata e, purtroppo, quella di qualità e fatta veramente in maniera artigianale è sempre più rara. Più che sulla cucina innovativa dello chef, sarebbe meglio puntare sulla cucina locale, magari adattata alle tecniche moderne, ma non stravolta e destrutturata”.

Trattoria La Brinca
Via Campo di Ne n. 58
Ne (GE)
Tel.: 0185.337.480
E-mail: labrinca@labrinca.it
Web: www.labrinca.it

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