In viaggio tra gli autoctoni. La Marzemina Bianca
Nella languida luce del tramonto lo sciamare disordinato delle gondole e dei barchi preannuncia il termine di un altro giorno in un rumoroso incrociarsi. I loro scafi solcano le acque del Canal Grande deformando al passaggio le immagini delle raffinate polifore dei palazzi che si riflettono nella laguna. Dietro a quegli usci segreti diletti si consumano incuranti della gente che si rimescola sotto l’aristocratico profilo delle mura in un insieme di ombre vocianti e colorate, rischiarate da timidi lumi nelle strette strisce di terra rubate al mare. Dinnanzi alle porte serrate dei bui bastioni il popolo minuto siede ricurvo attorno a sparute tavole traballanti sospirando alle fatiche del giorno, sollevati di godere del piacere stentato di un semplice vino acquistato per quindici soldi. Avide le bocche ad appagar la sete al primo sorso fino a farsi più docili in fondo al boccale, quasi lascive a quel razionale compiacimento.
L’olezzo di un’antenata cucina si diffonde nei vicoli dalle vicine furatole in cui altrettanti avventori consumano la loro grama cena. Gondolieri ossequiosi levano il cappello al passaggio dei Siori (signori); mendicanti allungano le mani scarne in cerca di carità. Non molto distante profumati signori ammantellati di preziosi tessuti non disdegnano di unirsi a questo variegato pubblico per il piacere di un cipro, un malaga, uno scopulos, un samos, consumati in gran fretta nei lindi locali delle malvasie lanciando una moneta al grasso banconiere senza riceverne resto che servirà da pegno alla sete del prossimo cliente.
Ipotiposi di vita settecentesca nel Dogado di cui il vino ne è elemento, ne scandisce i tempi e distingue i ceti. Un bicchiere di Borgogna, un tintiglia di Rota, una frizzante Sciampagna, un tedesco nato sul Reno, un tinto dalla Spagna, un rinomato Cipro – riferito ai vini dolci da moscati e malvasie della Grecia che le persone dabbene usavano bere a tutte le ore del giorno – e tutte le produzioni ecumene più prestigiose conosciute ai tempi, si ostentano come segno di potere ed abbondanza sulle tavole patrizie veneziane e si contrappongono a quei nostran (nostrani) conosciuti da secoli, che il Venezian brillante, prototipo sociale dell’era moderna ormai alle porte, reclama a goti (calici) se fosse di quel bon (quello buono) a strenua difesa del proprio avere rispetto a quel ch’è lontan (a quello straniero).
Sono le produzioni “terrefermiere” la nuova frontiera del secolo XVIII a San Marco e quelle del trevigiano – tra le porzioni di terraferma più prossime alla gronda lagunare – ed in particolare dell’area del Piave, si moltiplicano e si raffinano dimidiandosi in mirabile varietà di “gentile Bianchetta, di spiritose Pignolle, di fragranti Moscadelle fino alla Marzemina, la Regina di ogni uva, e che per noi è la preziosa Aminea di Colummella […] che formavano le delizie delle mense dei maggiori Principi della Germania” (Caronelli, Presidente dell’Accademia agraria degli aspiranti di Conegliano 1793).
Ma con il grande freddo che fu del 1709, il Leone alato va impallidendo e con esso la fama di quei gustosi nostran che saranno presto sostituiti con altri scelti per opportunità più che per qualità. Allora par lecito cercare di comprendere dove si sia interrotto il filo dei ricordi che ha consegnato il gusto alla banale uniformità, in questo mare di fortunosa ed alquanto infausta monocoltura viticola. Che sia colpa degli eventi? Della piccola glaciazione, delle logiche ricostruttive, della frammentazione terriera e del latifondo, delle crisi sanitarie, delle guerre? Oppure è colpa degli uomini? Dell’albagia degli umili che hanno sacrificato la ricchezza della specie alla cieca fede del sapere dei padri, nell’ignoranza delle malattie, nella ritrosia ai cambiamenti, nella mancanza di fiducia delle indicazioni dei dotti? Oppure della superbia dei sapienti, nel loro autocompiacimento alle conquiste di adattamento del nuovo, servo del profitto, infestando il territorio di anonimi francesi? Un po’ di tutto ed anche in legittima buona fede seguendo scientemente la corrente di tempi disordinati e fermenti di cambiamento.
Resta tuttavia oggi quel sentimento di impotenza dinnanzi a ciò che è sopravvissuto, riscattato dall’incuria di un intermezzo popolato da necessità contrastanti, consegnato al secolo attuale nelle sue caratteristiche originali ma in quantità troppo limitate, tanto da stimare nella parola l’ unico conforto.
Le moderne vicende della Marzemina bianca, così come quelle di ogni altro antico vitigno, si innescano nell’annoso dialogo che vede contrapposto l’autoctono all’alloctono e che segna a margine la necessità del recupero delle antiche varietà locali. Soltanto negli ultimi venti anni, nonostante l’opera abbia avuto inizio anni più addietro, l’esigenza di redimere i vitigni per salvaguardare non solo la biodiversità ma anche per dare risposta agli attuali problemi viticoli ed enologici, si è concretizzata in azione efficace aggirando nondimeno con maggior successo gli ostacoli di ordine scientifico rispetto a quelli di ordine pratico, quelli legati cioè all’aspetto più esterno della comunicazione, del marketing, dei rapporti tra le istituzioni coinvolte, che mira a valorizzare i tesori riscoperti. Dell’origine del vitigno non si hanno purtroppo notizie certe.
Immancabili le leggende che colorano le lacune ma non le colmano. Si paventa un’origine borgognona ed un suo cammino attraverso Germania, Austria e Svizzera prima di approdare sui colli del vicentino e del padovano ed infine nella bassa pianura trevigiana. Ultime indiscrezioni la danno come sinonimo dello Chasselas Dorato. Probabilmente qualcuno l’avrà incontrata come Sampagna o Sciamapgna (celebre, se non unica, la produzione dell’azienda Firmino Miotti di Breganze) una versione sur lie tipica del vicentino, frizzante e dolce, ottenuta tradizionalmente dal mosto di Marzemina ripassato nelle vinacce del Vespaiolo appassito per la produzione di Torcolato, imbottigliata con naturale rifermentazione. Oppure come uva dei tedeschi in ricordo della predilezione che il popolo germanico aveva per il vino, capace di mantenere intatte le caratteristiche organolettiche anche alle loro fredde latitudini.
Della bella Marzemina bianca nella pianura del Piave ce n’è attualmente modesta traccia, onorando lo sforzo di rare aziende tra cui Casa Roma di San Polo di Piave la cui mano è prona esecutrice di una versione ferma con breve macerazione sulle bucce di squisita fattezza, che sposa la causa qui perorata con 1,5 ettari di nuovo impianto. Il resto è probabilmente disperso in qualche vecchio vigneto mimetizzato in albus genus che finisce in anonimi uvaggi. Un vino semplice, come semplice è un foglio di carta piegato a metà che non è difficile da aprire alla propria conoscenza, non ha ombre volutamente celate, non ha involuzioni stereotipate, pronto alla comprensione di chi vuole intendere.
Semplice come la bellezza di quel grappolo dai chicchi dorati così serrati che pare quasi che lo spazio intorno sia troppo stretto per contenerli tanto da perdere la forma sferica. Semplice nel districarsi della sequenza dei profumi delicatamente floreali, polposamente fruttati, distintamente vegetali, piacevolmente minerali. Semplice come gli elementi alla base di un organismo complesso in un insieme di gusto raffinato ed elegante, di freschezza e sapidità che ne sono simbiotica essenza. Semplice come alcuni piaceri, sentimenti, abitudini che si comprendono solo alla luce della loro storia per intendere il segreto delle pieghe del mondo. Si, semplice come un foglio di carta piegato a metà, ma se non sai aprire un foglio di carta non potrai mai capire come si fa un origami.
Note a margine.
Furatole, bastioni, malvasie sono le antenate delle attuali osterie e trattorie in cui i veneziani potevano godere di cibo e vino venduto al minuto ai tempi buoni della Serenissima.
I Bastioni o magazeni erano locali angusti in cui il popolino poteva consumare solo vino locale, bevuto all’esterno del locale e passato attraverso le aperture delle finestre – le porte erano ben serrate per motivi di ordine pubblico – e frugalmente consumare del cibo come pane e simili che l’antenato oste poteva acquistare nelle botteghe dei luganegheri, quelle che noi oggi chiameremo drogherie, l’unico autorizzato a somministrare. Le furatole erano invece piccole stamberghe buie e fumose in cui si poteva mangiare ma non bere vino. Il cibo, a differenza dei bastioni, qui veniva preparato all’interno ma non lo si poteva condire né con grassi di alcun genere né con cacio, pena la chiusura per un anno intero del locale o una multa. Il loro nome deriva da furari, cioè rubare, per le ruberie che spesso vi si commettevano.
Le malvasie erano invece locali ampi con più stanze molto luminose sul cui fondo si disponevano in bella vista le botti del vino di varia grandezza e nel mezzo il bancone per la mescita; nella parte alta della parete l’immancabile altarino con un lume sempre acceso. Erano destinate alla frequentazione di ceti medio alti per il semplice fatto che qui si poteva consumare solo pregiato vino straniero, importato per lo più dalla Grecia, da cui il nome malvasia. Mercanti, nobili e gondolieri affollavano le malvasie fin dal mattino che iniziava con il bicchiere della garba ossia malvasia secca.
Era usanza da parte dei signori pagare senza prendere il resto che serviva ad offrire il bicchiere successivo al fortunato che veniva dopo, di solito i gondolieri che, grati di ciò, toglievano il cappello in gesto ossequioso al loro passaggio. In queste era vietato vendere vini locali, far da mangiare e giocare a carte.