Un vino da Re: tra le vigne di Verduno c’è un tesoro che si chiama”Pelaverga”
Papa Giulio II, epicureo del 500, fu gran bevitore di Pelaverga: glielo inviava a Roma la Marchesa Margherita, regnante a Saluzzo. (Saluzzo ridente cittadina situata a valle del Monviso in provincia di Cuneo) e il piccolo centro fu elevato a rango di città proprio da quel papa, a riconoscenza di quel favoloso vino.
Oggi il Pelaverga è prodotto esclusivamente a Verduno, il paese che possiede il Castello di Re Carlo Alberto II, un giovincello del ‘500, passato, ereditato, comprato dai nobili di un tempo; ritorniamo però alle origini: nel 1737 Rachis Maurizio vende ogni proprietà al nizzardo Carlo luigi Caisotti, già Conte di Santa Vittoria e dal 1739 Marchese di Verduno, il quale fa ricostruire su disegno del grande architetto Juvarra parte del Castello.
Nel 1799 il Marchese lascia i suoi beni in Verduno in parti uguali agli Ospedali San Giovanni e Carità della città di Torino.
Nel 1838 Re Carlo Alberto II acquista dai due Istituti di Carità il Castello, affidando la direzione al Generale Carlo Staglieno, famoso enologo.
Nel 1909 la famiglia Burlotto acquista il Castello e le terre da Casa Savoia rimanendone ancora oggi i proprietari.
Il vitigno Pelaverga piccolo è originario delle colline saluzzesi, dove esiste tuttora qualche vigna, e seguì il Beato Valfrè quando nel 1620 si trasferì nella Langa e volle sperimentare la coltivazione in una zona già vocata alla viticoltura.
L’esperimento ebbe successo, il vitigno dette grappoli rigogliosi e un vino rosso corposo, amabile, profumato.
Per oltre tre secoli e mezzo, però, del Pelaverga si parlò poco, il vitigno non ebbe la diffusione che meritava, gli agricoltori lo coltivavano ma in quantità modeste, per uso familiare. L’uva veniva infatti consumata a tavola e quando i grappoli erano pigiati il vino serviva solo per solennizzare particolari ricorrenze. Nel dopoguerra, in coincidenza con il boom dei grandi vini, il riconoscimento della denominazione di origine dei prodotti di alta qualità, anche il piccolo Pelaverga cominciò lentamente a diffondersi, a trovare più numerosi estimatori. Ma qualsiasi confronto quantitativo lo vede ancora oggi perdente.
Quelle bottiglie riservate un tempo all’ospite d’onore, quelle rarità nascoste tra i filari sono state dimenticate, messe in ombra.
Un tempo il contadino anfitrione li chiamava “vin particolar”, li andava a prendere con segretezza in cantina e con religioso orgoglio li proponeva all’ospite. Erano vini particolari perché fuori del circuito normale di bevuta.
Si offrivano appunto all’ospite gradito, a un amico o in occasione di un evento degno d’essere ricordato. Con l’arrivo della Doc molti di questi vini, simpatici ma di limitata produzione, sono scomparsi oppure sono scaduti, ingiustamente, nell’apprezzamento.
Sulla sinistra del Tanaro, e nel Saluzzese, alle porte delle grandi montagne, esistono ancora questi vini gradevoli, ma poco conosciuti, non ritenuti così nobili da entrare nel Gotha vinicolo, ma degni d’essere bevuti. Vini, insomma, che i “testi sacri” dell’enologia liquidano in poche righe fugaci.
Qualche anno fa si tentò il suo rilancio bisbigliando che il Pelaverga aveva indiscutibili poteri afrodisiaci, ma mai ci fu testimonianza di ciò e chi lo ha verificato forse preferisce tacere.
E se fosse vero?