Franco di nascita, ispanico per amore: i vini di Christophe Chapillon
Immedesimarsi nei personaggi che caratterizzano il mondo del vino come uno spettacolo variopinto spesso aiuta a comprenderli e raccontarli. Questa volta confesso una certa curiosità perché il connubio è insolito – o forse lo è nel mio immaginario – e tocca una terra da cui sono affascinata. L’incontro è stato di quelli che più casuale non si può. Un like su una pagina di un social, una richiesta istintiva fatta non solo nel giorno peggiore della settimana, il lunedì, ma anche nell’ora peggiore di questo giorno funesto, appena svegli, sfidando senza vergogna la razionalità che ti dice invece di stare zitta e ferma, e la risposta che non si è fatta attendere. Christophe avrebbe mandato i suoi vini direttamente dall’azienda perché in Italia non sono ancora distribuiti. Una bella responsabilità quella di essere tra i pochi italiani ad assaggiarli. Avevo accettato pochi giorni prima l’invito a visitare il suo nuovo sito web e questo nome francese, Chapillon, associato alla più latina delle terre da vino, la Spagna, mi intrigava non poco aprendo immaginifici scenari degustativi in cui le domande su “quale stile” si affacciavano a frotte alla mente in attesa di conferme o smentite. Lessi i brevi cenni sulla sua storia. Il trasferimento a Zaragozza nel 1986 dalla elegantissima Valle della Loira (dettata anche un po’ per amore della moglie spagnola), la sfida che suo zio, anni prima di lui, aveva lanciato affiancando la famiglia Langa – vignaioli in Calatayud con 150 anni di tradizione vinicola alle spalle – la nascita del brand Chapillon Wines e una scommessa: creare dei vini che non smentissero la propria origine, del resto sarebbe alquanto arduo dato che oggettivamente tratti del territorio restano riconoscibili in un vino, e che allo stesso tempo fossero in grado di cogliere la fattezza moderna dell’enologia di Aragon.
Giusto per capirci: Calatayud è la D.O. situata nell’area nord est della penisola Iberica, precisamente nella zona più a est della provincia di Zaragozza a solo un’ora dalla capitale Madrid. È compresa, considerata la relatività delle distanze, tra la Ribera del Duero ad ovest, la Rioja a nord e la Catalogna con tutti i suoi gioielli ad est. È un ampio territorio dalla topografia piuttosto variegata in cui la vite cresce condividendo gli spazi collinari con mandorleti, oliveti e ciliegeti sovrastando il fondovalle punteggiato da peschi, meli e peri. L’area, che è parte del sistema montagnoso della penisola Iberica, è divisa in tre parti: una valle centrale, una primo fronte montuoso ad est – formato dal massiccio del Monte Moncayo comprese le vette del Virgen, Victor e Algairen – ed un secondo fronte, ancora più orientale, che ingloba le montagne di Ateca e Pardos Sierra. Da un punto di vista geologico il Calatayud si ritiene sia molto simile al bacino dell’Ebro, secondo fiume della penisola, ma con delle caratteristiche ben precise: il sistema montagnoso che lo circonda, il fertile fondovalle ed infine la zona pedemontana.
Il 75% del vigneto nasce su suoli di natura sedimentaria e metamorfica sciolti formati da argilla e ardesie arricchite di vari minerali. L’80% dei vigneti è piantato tra i 650 ed i 900 metri di altitudine ma alcuni superano anche i 1000 metri. Il clima è indiscutibilmente continentale con estati calde, quest’anno le temperature non sono scese sotto i 40°C, ed inverni freddi. L’area di 3200 ettari è coltivata con varietà autoctone che si alterano agli immancabili internazionali, bianchi e rossi. La regina indiscussa è la Garnacha, coltivata per il 62% della superficie, seguita dal Tempranillo.
È vero che la differenza di attenzione che poniamo nelle azioni – nel caso specifico quello di assaggiare il vino – discrimina il livello di percezione della realtà, nel mio caso aspettative e suggestione l’hanno però fatta da padrone. Lo stile è decisamente moderno. La parte innegabilmente oggettiva cioè la natura dei suoli, la topografia ed il clima si svelano fin da subito nei colori intensi, il corpo pieno ed un contenuto di alcol (nessun vino rosso scende al sotto dei 14,5%) che è sapientemente bilanciato dalla freschezza e dal tannino tanto da attenuarne la percezione, questo perché le altezze consentono una maturazione dell’uva più lenta con un migliore accumulo di sostanze polifenoliche ed aromatiche. I profumi infatti, anche quelli varietali, sono molto netti e riconoscibili e convivono armonicamente con le cessioni del legno il cui uso diventa funzionale e non più ingombrante accessorio di stile. La letteratura archivia la zona come adatta alla produzione di vini giovani anche se nelle vecchie vigne di altura i vini sono molto longevi, ma questo non ne inficia la qualità o l’appeal. Sono vini paradossalmente profondi ma di soave leggerezza, quantomeno nella loro concezione, gradevolissimi nella beva e divertenti da abbinare alla nostra cucina. Emblematica la Cuvée Harmonie 2014 in cui le note speziate e il corpo pieno del Petit Verdot si uniscono all’avvolgenza e alla rude attrazione del giovane Tannat in un blend di eleganza bordolese e guascona irruenza.
Seducente il Siendra 2014, uvaggio di Garnacha, Syrah e Cabernet Sauvignon: ammiccante, dai profumi fruttati che ricordano romanticamente l’autunno ed esaltati dalle note dolci della botte. Il gusto un po’ agreste della Garnacha è smorzato dal grip del Cabernet Sauvignon ed ingentilito dallo speziato dello Syrah trasformandolo in un piccante sorso da preferire in speciali occasioni; la star americana Sarah Jessica Parker l’ha scelto come brindisi ideale al suo divorzio, ad esempio. Lo stile forse più tipicamente spagnolo è nella Cuvée Paul 2014, 100% di uva Garnacha vendemmiata da viti vecchie 70 anni. La Garnacha è qui considerata un vero patrimonio. Le vigne sono quasi tutte nella zona più alta di Aragon su terreni con elevata pendenza e massima areazione per evitare muffe, cui è soggetta la varietà, ed assicurare un migliore soleggiamento che aiuta la vite sopratutto durante la fioritura. L’età minima è di 50 anni per arrivare alle ultracentenarie coltivate ad alberello nella parte più alta. Le rese bassissime e l’altitudine della zona permettono una più elevata concentrazione di sostanze coloranti rispetto alla media delle altre zone limitrofe in cui si coltiva ed un residuo di dolcezza che, seppur bilanciato dalla freschezza e da un tannino di fattura un po’ rustica, ha l’effetto di aumentare la percezione di morbidezza del vino.
Ciò che più impressiona di questa bottiglia, ma è un tratto comune a tutta la linea, è la pulizia e la persistenza dei profumi che nella Cuvée Paul si arricchiscono di un tocco tostato non già legato alla sosta nel rovere quanto a una caratteristica intrinseca del vitigno in questo ambiente di coltivazione. Continua la gamma dei rossi con quello che alla fine ho eletto mio preferito. Paul & Rémi 2015, Tempranillo in purezza. È forse quello più “semplice”, laddove questo termine non va inteso nella sua accezione primordiale e svilente ma nel senso di privo di stereotipi, di lineare comprensione a chi lo vuole intendere. Il Tempranillo è sicuramente l’uva più coltivata in Spagna e raramente lo si trova da solo, tendenzialmente a causa della sua poca acidità e dolcezza (l’uva matura molto velocemente sottraendo tempo all’accumulo di sostanze soprattutto di zuccheri che non si trasformeranno in un tenore elevato di alcol) per non parlare di una corposa carica tannica data dalla buccia molto spessa. Nel 90% dei casi viene condito da un’aggiunta di nobile Cabernet Sauvignon, di Merlot o della sua connazionale Garnacha da cui trae speciale linfa per trasformarsi in vini di eccezionale finezza e longevità. Si pensi ad etichette quali Pingus, Vega Sicilia, Terreus, Finca Allende e compagnia cantando. Nel restante 10% dei casi è raro trovare un Tempranillo in purezza che oltrepassi la soglia dell’ordinaria qualità. Per questo mi ha piacevolmente sorpreso la grazia di questo sorso.
L’anima vibrante è rappresentata del tannino, avvolto da un colore purpureo, denso. La sua trama, non delle più sottili, è piacevolmente materica e bilanciata da una presenza acida quasi felpata che, seppur in quantità adeguata, non supera la soglia di percezione del tannino che resta dominante. C’è un’eleganza innata in questo vino che cammina in punta di piedi, discreta, e che si porta dietro il franco profumo della violetta, del mirtillo e della ciliegia mescolati ad una nota balsamica quasi resinosa probabilmente ceduta dal rovere che lo ha cullato per 6 mesi. Non lasciatevi ingannare dall’impatto corposo in bocca, deglutendo tutto si rivelerà leggiadro, essenziale, semplice.