• Lun 04 Dic 2023

A carnevale ogni scherzo vale: rito e riso per l’abbondanza

L’atavico legame dell’uomo con la natura, quel senso di riverenza ed onnipotenza, di possesso e sottomissione che pervade il suo ordinario scorrere, viene dall’uomo esorcizzato attraverso una serie di rituali che aiutano a sopportare una sorta di “crisi della presenza” che l’umano avverte di fronte al naturale, tanto da sentirne minacciata la vita stessa.

L’uomo trova nei rituali modelli rassicuranti che costruiscono nel tempo quella che viene definita tradizione. Essi hanno pertanto bisogno di una funzione motivata e profonda senza la quale non potrebbero esistere. Tra questi quello che suscita alcune riflessioni, ed evidenzia maggiormente il legame tra uomo e natura, è quello del carnevale.

Certo, bisogna fare qualche passo indietro a partire dagli anni ’50 e mi soffermo in una zona geografica particolare, il Veneto. Nelle tradizioni popolari di questa regione il carnevale aveva inizio subito dopo l’Epifania – che si concludeva con il falò della vecia, un fantoccio che incarnava scenicamente tutti i mali legati all’inverno – e terminava con la processione e morte, anche questa legata al fuoco, del re carnevale. Il richiamo alla simbologia del fuoco, della processione e della morte, incarna il legame del carnevale ai riti agrari in attesa del risveglio arboreo, la fertilità trasmessa attraverso il fuoco e la vita che si rigenera.

La “maschera” stessa rappresenta l’unione con le forze naturali, un incontro con la magia e per questo indossarla era considerato dalla Chiesa un atto peccaminoso. Gli atteggiamenti orgiastici, il sarcasmo, il riso che accompagnano l’incenerimento dei pupazzi costituivano l’allegria e lo spirito farsesco della ritualità popolare. Sarebbe ingiusto ed errato credere che certi atteggiamenti libertini fossero solo gozzoviglie dovute alla passione sfrenata. Azioni di questo tipo erano considerate di essenziale importanza per la fertilità ed il benessere degli uomini.

La stranezza della combinazione degli aspetti farseschi (il riso) e quelli funebri (incenerimento) nelle feste europee è legata da un lato alla compassione e profondo rispetto che gli uomini hanno per il dio della vegetazione morto e dall’altro all’odio ed al timore verso lo stesso rallegrandosi così della sua morte. C’è, però, una distinzione tra il riso feroce e crudele, strumento di satira, e la risata vivificante. “Il riso può esserci solo dove c’è vita.

L’allegria del riso è l’allegria della vita” Propp. L’opinione popolare attribuisce al riso non solo la capacità di accompagnare la vita, ma anche di provocarla, farla nascere nel senso letterale della parola. Nella mitologia greca quando la dea greca della fertilità Persefone ebbe la conferma del rapimento della figlia nell’Ade, si chiuse nel lutto e nello sdegno e sulla terra si interruppe qualunque germinazione. Allora la sua schiava Baubo provò a farla ridere dimenandosi.

Persefone rise e sulla terra tutto ritornò a fiorire. Le canzoni incidenti, gli scherzi, le ingiurie oscene, avevano lo stesso significato quello, cioè, di focalizzare l’attenzione su qualcosa che di solito è nascosto. I contadini greci ricorrevano spesso alle ingiurie oscene e persino al denudamento agricolo per trasmettere alla terra la necessaria fertilità e scacciare le cattive influenze. Anche nelle fole contadine venete il sorriso della principessa liberata fa rifiorire i giardini ed ogni cosa riprende a vivere. Tutto questo dimostra che nei riti agrari si utilizzava la forza del riso per influire magicamente sul mondo vegetale.

Il significato agrario originale del carnevale si è modificato nel tempo mantenendo tuttavia il suo mistero che si svela nelle maschere, nei cortei, nelle processioni, nella volontà di divertimento e di rottura con la norma e la consuetudine. Il primitivo valore agricolo si trova nelle tre principali maschere: l’essere umano vivente, la bestia e il fantoccio.

Fino a non molti anni fa l’animale ed il fantoccio rappresentavano la maschera carnevalesca per eccellenza. In epoca di consumismo e protagonismo è l’uomo che prevale. Il papà del gnoco di Verona, ad esempio, rappresenta la figura dell’uomo-maschera consolidata nella tradizione agraria, una sorta di voto all’abbondanza dopo anni di carestia e fame. Ha l’aspetto giocondo e nutrito delle forze esorcizzanti la fertilità e l’abbondanza. Ad esso si accompagna un asino, in pieno clima agricolo, a sottolineare l’importanza che gli animali hanno nel mondo contadino. Ed ancora il Re del Goto, il Re del Vin, accompagnato da spettacolare coreografia, el muso da du musi, una sorta di rappresentazione del dio Giano Bifronte e molti altri. Il richiamo la mondo contadino era più diretto con i travestimenti con pelli di animali o l’uso degli stessi nelle passeggiate isteriche per le vie del paese.

Tra questi l’animale più comune era la capra che, per la sua struttura corporea (le corna e le mammelle), consentiva ai giovani un gioco erotico sfacciato, fuori dalla consuetudine ed accettato dalla gente. Così si dica per il travestimento da donna con lo scopo evidente di mostrare le parti tabù del corpo femminile in modo vistoso e provocatorio. Altro animale usato nei travestimenti era il toro, in evidente contrapposizione alla femminilità della capra.

Tutto all’insegna di una farsa allegorica finalizzata al riso. Esistevano tuttavia delle regole. Nessuno scherzo alle case delle vedove o chi era stato colpito dal un lutto. Ogni sera i giovani goliardi sceglievano una strada in cui far festa, bussando alle porte e coinvolgendo tutti in un gran fracasso. Infine, di chiudeva la serata in una stalletta in cui si raccontavano storie e, soprattutto, si svolgevano giochi, espressione della partecipazione collettiva, che trovava sfogo nel lancio di dolci o coriandoli che ricordavano il lancio del riso, augurio di fertilità ed abbondanza.

È pertanto evidente anche la funzione sociale della ritualità. La mascarada aveva il suo culmine nell’ultimo giorno di carnevale cui durante il quale il grottesco coinvolgeva chiunque ai lati della strada lungo cui sfilavano carri trainati da buoi , anch’essi addobbati in modo ridicolo. Travestimenti e licenze di ogni tipo, rappresentazioni quasi teatrali, con tanto di dialoghi, di scene di vita ordinaria, casalinga, sono il mezzo per giungere al riso.

Tutto si conclude di nuovo con il richiamo al fuoco, un falò sul quale viene bruciato un fantoccio di nome carnevale tra gli schiamazzi e le risate dei fanciulli. Il richiamo esorcizzante all’abbondanza è anche quello del cibo, grasso ed in quantità smisurata offerto in questo periodo accompagnato con vin bon. Il cibo diventa parte integrante delle celebrazioni rituali in occasione delle feste di passaggio da un periodo di tempo ad un altro: fine ed inizio di un nuovo anno, così come il principio e la fine di una stagione.

Col grasso di maiale si preparava el brazadello, una sorta di ciambella, oppure il bigoloto, una focaccia di farina gialla e bianca. Ma la preparazione tipica e più gradita del carnevale restano le fritole, semplici dolci dalla immutata forma rotonda di acqua, strutto, zucchero e farina la cui preparazione riporta alla mente i cibi dei morti: il carnevale costituisce la morte dell’inverno e il passaggi alla stagione produttiva. Mangiare bene ed abbondante significava fare festa, trasmettere al nuovo periodo di tempo che s’incontra allegria ed abbondanza.

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