Storia di terra e d’anarchia: Luigi Veronelli raccontato da Raffaella Bologna
Con riconoscenza, solo per non dimenticarlo
(mia, per una volta)
L’amore è un sentimento alto, una forza incontenibile che spinge a compiere azioni uniche, a combattere battaglie forse già perse per la sola speranza che una possibilità – anche una sola – ancora esista. Luigi Veronelli amava la terra, amava le mani dei contadini capaci di compiere gesti antichi ed essenziali ed amava – di un amore puro e assoluto – i frutti che scaturivano dalle zolle e dal lavoro di quelle mani.
Veronelli, però, era di più: non solo un innamorato, un sognatore o un esteta impegnato nella ricerca del buono. Lui era un visionario: lo era come lo furono Leonardo da Vinci o Steve Jobs. Una persona capace di avere una “visione” chiara del futuro o, perlomeno, di come potrebbe – e dovrebbe – essere. La sua visione contemplava le Denominazioni Comunali e la valorizzazione delle varietà tradizionali; Lui immaginava un’Italia capace di valorizzare – non monetizzare – non tanto la propria agricoltura ma i propri agricoltori, perché sono gli uomini, a prescindere che coltivino la vite, l’olivo o il grano, a rendere grande un territorio e i suoi prodotti.
L’amore, però, è un sentimento troppo grande per poter essere limitato alla solo ricerca edonistica del buono e del bello: ecco quindi emergere l’altro Veronelli, quello innamorato della parola come strumento di comunicazione e scambio di cultura, pensieri ed emozioni. Una parola libera e anarchica, una parola che non si piega, non si assoggetta alle esigenze di pochi né, tanto meno, al fascino perverso della prostituzione intellettuale.
Una parola colta e ricercata ma, nel contempo, mai fine a sé a stessa. Una ricerca lessicale così attenta e scrupolosa da spingerlo a creare nuovi termini che meglio potessero rendere le sfumature, l’ineffabile nascosto tra le pieghe della sua enorme cultura e della sua infinita sensibilità. Una sensibilità che non era sono attenzione ai sensi ma anche – e soprattutto – attenzione alle persone intese nella loro forma più alta, vissute nel privato come amici, compagni o amori. L’amicizia era per Veronelli un dono prezioso, da dare e ricevere solo con grande rispetto e cura e, di conseguenza, una ricchezza da coltivare giorno per giorno, proprio come le vigne che tanto amava.
Ecco quindi nascere l’idea di ricordare, in occasione dei 10 anni dalla sua scomparsa avvenuta il 29 novembre 2004, questo grande italiano tramite le parole di Raffaella Bologna, figlia di Giacomo – detto Braida – un grande uomo e un grande amico di Luigi, con il quale ha condiviso sogni, intuizioni e tempo. Il tempo, un bene prezioso che rivela la propria reale importanza solo quando è finito.
Entrambi ne erano coscienti ed ecco quindi che il loro tempo, ogni istante insieme, era vissuto intensamente, sinceramente, senza compromessi né superficialità come solo i più grandi sanno fare.
Luigi Veronelli e suo padre erano legati da un’amicizia vera, profonda: come ritiene che questa abbia influenzato le loro storie personali e professionali?
Il loro tempo insieme era sempre di qualità, vissuto intensamente sia che si trattasse di discussioni di lavoro piuttosto che di momenti goliardici trascorsi spesso intorno a un tavolo con altri amici. La loro amicizia ha avuto inizio nel 1971 e, da allora, entrambi hanno vissuto momenti difficili durante i quali mai si sono negati aiuto e sostegno reciproco.
Molte le esperienze che ne hanno segnato la vita. In particolare, ritengo che il viaggio in Georgia del giugno 1989, per visitare i territori dove il vino nacque migliaia di anni fa, sia stato uno dei momenti più intensi della loro vita comune.
Hanno incontrato persone squisite, bevuto vini spesso deludenti prodotti in vecchie vasche di ferro arrugginito ma, soprattutto, hanno creato vere amicizie. Ne parlavano entrambi come di un viaggio epico, dove la curiosità faceva dimenticare la paura, dato che, proprio in quei mesi, si stava sfaldando l’Unione Sovietica e approssimando la caduta del muro di Berlino.
Raffaella Bologna bambina: quali sono i suoi ricordi, le sue sensazioni riguardo a Veronelli durante la sua infanzia?
Ricordo che mio padre si avvicinava a Veronelli come ad un confessore, ad un amico a cui confidare i propri eccessi. Mio padre era una persona godereccia a differenza di Gino che, nonostante il grande amore per il buono e il bello, difficilmente eccedeva, mantenendosi sempre più riservato e schivo. Ecco quindi che spesso papà si rivolgeva a Veronelli raccontandogli i propri eccessi in attesa di una sorta di laica e amicale assoluzione. Era comunque un rapporto sereno, rispettoso ma, nel contempo, ricco di ironia, basato sulla grande capacità di entrambi di godere del momento.
Se dovesse raccontare Luigi Veronelli, quale ritiene potrebbe essere l’episodio in grado di rappresentarlo meglio?
Veronelli era uno sportivo, amava tutti gli sport anche quelli meno convenzionali e, apparentemente, più rischiosi. Ecco quindi che nel corso di una vacanza studio nel Sud Africa vitivinicolo insieme alla sua compagna Cristiana e alla mia famiglia, Gino convinse mio padre, un uomo alto e massiccio, a lasciarsi imbragare, legato a una vela, per farsi trainare in volo da un motoscafo sopra l’Oceano mentre mia mamma copriva, terrorizzata, gli occhi a me e a mio fratello Beppe.
Non è un episodio legato al Veronelli scrittore o gourmet ma, a mio avviso, ben rappresenta la sua voglia di sperimentare, di affrontare sempre nuove sfide in compagnia degli amici più cari.
Veronelli nel privato: come definirebbe la sua passione per la terra e suoi prodotti lontano da penna e telecamere?
Un appassionato vero, capace di andare al cuore delle cose, per nulla interessato agli orpelli del semplice apparire. Evitava le grandi tavolate, preferendo i piccoli gruppi dove parlare vuol dire realmente comunicare, raccontare qualcosa:
Lui, grande narratore, quando parlava diceva sempre qualcosa. La scelta dei locali era accurata e basata sulla qualità vera, sull’anima del ristorante e, più ancora, sull’anima del ristoratore. Mi ricordo una gita in Alto Adige, in Val d’Ultimo: una baita nel nulla, in fondo alla Valle, un locale per operai. Vi eravamo andati apposta perché gli avevano detto che lì il cibo era degno di essere provato e fu così. Pochi amici, locale semplice, cibi tradizionali: ancora lo ricordo.
Giacomo è l’uomo! Così Veronelli definì in più occasioni suo padre. Come sente di poter sintetizzare la figura di Luigi Veronelli?
Mio padre definiva Veronelli “il Vangelo” e aggiungeva che, come il Vangelo, doveva essere interpretato. Erano a volte in disaccordo: rammento, ad esempio, serrate discussioni riguardanti la grande distribuzione moderna. Gino era favorevole a che il vino dell’artigiano fosse lì, al contrario di papà che riteneva tale scelta poco opportuna.
Nel contempo, però, Veronelli, l’anarchico, collaborava con i Centri Sociali – ad esempio il Leoncavallo di Milano – dimostrando che le sue scelte erano dettate dal desiderio di diffondere la conoscenza del vino presso tutti coloro i quali si fossero mostrati interessati. Era una persona indipendente, che tale ha sempre voluto rimanere.
Questa volontà lo spinse a rifiutare, una volta diventato cieco, la candidatura a senatore a vita che un gruppo di produttori era riuscito a fargli avere, tramite l’aiuto del Seminario Permanente Luigi Veronelli, in segno di stima e riconoscenza per quanto fatto per il nostro Paese. Ritengo, pertanto, che il suo lavoro e la sua figura siano tutt’oggi di grande attualità. Ecco quindi che nel periodo 21 gennaio – 22 febbraio 2015, il Comitato Decennale Luigi Veronelli, di cui faccio parte, organizzerà una mostra a Lui dedicata presso la Triennale di Milano intitolata “Camminare la Terra”.
Veronelli e il potere: anarchico, indipendente, intellettualmente cristallino. Come è cambiato il rapporto tra informazione e produttori in questo primo scorcio di terzo millennio?
Le differenze principali devono essere cercate nel modo e nei tempi con i quali noi produttori ci relazioniamo oggi con i mezzi di informazione ed in un mercato globale. I nuovi media hanno ridotto i contatti umani sostituendoli spesso con e-mail o veloci telefonate.
Una volta c’era più tempo da dedicare ai giornalisti e con loro si potevano instaurare rapporti umani, conoscersi come persone e non solo come professionisti. Inoltre, spesso ora i giornalisti sono più interessati ad aiutare le aziende a identificare nuove opportunità commerciali piuttosto che a raccontare storie di uomini, di fatica e di vigne.
Complessivamente, oggi per i consumatori sono disponibili molte più informazioni ma queste sono generalmente focalizzate sul prodotto e non sul produttore, la cui umanità sembra interessare sempre meno chi si approccia al mondo del vino.
Veronelli e l’Italia: da sincero appassionato di quanto di buono il nostro Paese ha prodotto in migliaia di anni di storia, quali erano – in cucina e in cantina – le passioni private di questo grande enogastronomo?
Gino era innamorato dei piatti semplici, delle ricette tradizionali ma realizzate con materie prime d’eccellenza e preparate con grande cura e attenzione. Visitava sempre la cucina dei ristoranti dove si trovava e si informava sull’origine dei prodotti.
Ad esempio, a mia nonna, che per anni ha gestito la Trattoria Braida – ora Bar degli Amici – qui a Rocchetta Tanaro, domandava dove avesse comprato le galline con le quali, tra le altre cose, preparava il brodo che Veronelli amava in modo particolare. Per i vini la sue preferenze erano soprattutto legate ai produttori, alle loro storie, al fatto che fossero vignaioli realmente appassionati del proprio lavoro: nel vino del contadino c’è la persona.
Gentilissima Raffaella, lei ha avuto modo di conoscere e frequentare Luigi Veronelli durante tanti anni: quale crede sia stato il contributo maggiore dato da Veronelli al mondo italiano del vino?
È difficile scegliere fra le tante idee e attività di Gino quali possano avere maggiormente contribuito a migliorare il vino italiano e la sua immagine internazionale.
Certo il suo ruolo di divulgatore ha avvicinato molte persone al mondo dell’enogastronomia, ma ritengo che l’aspetto del suo lavoro che maggiormente ha inciso sullo sviluppo dell’Italia enoica sia stata la sua ferma determinazione nel portare sia i produttori sia i consumatori a scegliere la qualità al posto della quantità: in breve “poco ma buono”.
Una grande riconoscenza è poi da attribuire alla sua innata capacità di insegnare il mestiere ai giovani: grandi nomi dell’attuale giornalismo enogastronomico sono stati suoi studenti: mi piace, fra i tanti, ricordare Andrea Bonini, Francesco Arrigoni, Daniele Cernilli, Luca Maroni e Alessandro Masnaghetti oltre, ovviamente, a Gian Arturo Rota e Nichi Stefi.
Le foto sono state gentilmente fornite dalla famiglia Bologna