Riconoscibilità e valorizzazione sono i classici capisaldi del successo di un prodotto sul mercato e i vini non fanno eccezione… se ci si limita a considerarli beni di consumo. Ma come fare quando si tratta di una piccola denominazione spesso confinata nella cerchia dell’anonimo consumo locale?
Dopo tre anni dalla presentazione della nuova DOCG Malanotte del Piave si torna a fare il punto della situazione. Il successo del vino è ben al di sotto delle aspettative nonostante tutti gli sforzi compiuti per renderlo appetibile. Per chi non lo conoscesse è il vino Raboso ottenuto dall’omonimo vitigno autoctono coltivato lungo la valle del fiume Piave tra le province di Treviso e Venezia. Un vino che racchiude quasi quattrocento anni di storia e tradizione.
Le prime notizie risalgono al 1600 quando era protagonista indiscusso delle esportazioni della Serenissima in Europa e nel lontano Oriente e per questo motivo definito “vin da viajo” . Il nome probabilmente deriva dalla sua elevata concentrazione di tannino che gli conferisce quel carattere irruento, “rabbioso” appunto. Oggi nel tentativo di ammorbidirlo le uve vengono appassite e poi vinificate. Ma nonostante il riconoscimento dello status qualitativo più alto, quello della DOCG, il vino resta confinato ad un consumo locale a volte scandalosamente “contadino”.
Di solito quando si pensa a “fare” un vino l’attenzione principale si rivolge all’aspetto produttivo nella sua purezza cioè riferito alla scelta della zona migliore, del vitigno, dell’aspetto geologico che hanno come finalità quella di ottenere un prodotto che sia intrinsecamente di grande qualità ma ci si dimentica, o si trascura forse, quello più importante che “completa”, se non addirittura crea in casi estremi, il vino e cioè la comunicazione…della serie: il vino l’ho fatto ed ora?
Nella letteratura economica esiste il “brand building” cioè quella scienza tutta “markettara” che costruisce un brand partendo dalle caratteristiche del prodotto evidenziandole e adattandole al mercato rendendolo così riconoscibile e dotato di quel valore, a volte anche effimero, che lo rende visibile e noto e di cui i consumatori non possono fare a meno determinandone il suo successo. Basi da cui partire sono la conoscenza del mercato e dei suoi protagonisti.
Certo ad un piccolo produttore di provincia, e lo dico con tanto affetto, che produce poco meno di 10.000 bottiglie all’anno non si può certo chiedere un investimento del genere,inciderebbe troppo sui costi di una produzione già scarna per il mercato estero. Ma ci sono tutti gli strumenti affinché un brand possa essere costruito lo stesso senza l’ausilio dei guru , due in particolare : territorio e qualità.
Il primo è l’elemento sul quale tutti puntano: il territorio. È ciò che fa da sfondo al palcoscenico con un’accortezza però, chi siede in platea non sempre proietta il suo sguardo oltre il protagonista che resta il vino o il vitigno.
Ciò vuol dire che la scelta di valorizzare ed enfatizzare il territorio nella campagna di comunicazione non vale per tutti i mercati. Basti considerare quelli emergenti verso cui si sta spostando l’ago della bilancia commerciale. In questi mercati manca una identità ed una cultura del territorio per cui la discriminante delle scelte resta il vitigno,la qualità del vino, le tecniche di produzione ed in ultimo il territorio. In Europa la scelta è ben diversa dettata dal bisogno di identificazione con il luogo di produzione.
Le piccole realtà produttive spesso sono costrette ad accorpare la propria identità ad una più grande per avere un po’ di visibilità, cosa che è stata fatta per il Malanotte che è entrato a far parte di un consorzio, Consorzio Vini Venezia, che sfrutta un territorio ben noto che è quello veneziano.
Sacrificio questo che non è invano solo se si mantiene una ” strategica comunione di intenti” cioè sfruttare l’immagine di un territorio per promuovere ogni prodotto che esso può offrire dalla fascia più bassa a quella più alta. Ma forse è proprio la mancanza di una visione strategica che penalizza le piccole denominazioni a volte troppo chiuse nei rigidi vincoli del “fare tradizionale”.
Nel mercato moderno, così fortemente frammentato, c’è spazio per tutti, ma è necessario che questa identità si traduca in autenticità e trasparenza del prodotto. Tradotto: i consumatori scelgono il vino che soggettivamente dà loro soddisfazione o meglio si sceglie ciò che piace, ma il vino deve anche essere vero e riconoscibile coerente con l’immagine che si vuol dare del territorio da cui proviene. Questo meccanismo però vale per l’export solo se è soddisfatto prima di tutto nel mercato interno.
Proprio perché questo valore di identità territoriale non è radicato all’estero, una efficace strategia potrebbe essere quella del ” Profeta in patria“: un vino che è conosciuto ed affermato nel mercato interno ha maggiore visibilità all’estero per cui tale mercato non ha più bisogno di essere faticosamente conquistato, ma sarà sufficiente presidiarlo con campagne di comunicazione che prevedano formazione, partnerariati con gli importatori, organizzazione delle reti di vendita e la condivisione delle proprie esperienze con gli altri produttori.
L’altro elemento su cui puntare è la qualità, un concetto che va ben oltre quella intesa in senso di salubrità e produzioni condotte secondo le buone regole sanitarie e non. La qualità del vino idealmente abbraccia anche quella del territorio intesa come rispetto di esso, della sua cultura, delle tradizioni, dei luoghi e del paesaggio; ma qualità è intesa anche come qualità imprenditoriale in un’ottica non più tattica ma strategica e cooperativistica dei mercati da parte degli imprenditori del vino.
Pur volendo dare una visione ottimistica siamo però consapevoli che la strada è ancora tanto lunga a maggior vedere in uno Stato, come quello Italiano, che paga la mancanza di un piano strategico efficace a livello vitivinicolo, mancano ricerca ed investimenti e questo penalizza proprio le piccole realtà che per quanto piccole rappresentano l’autenticità e l’essenza delle comunità che presidiano la nostra cultura.